Laura Brignoli presenta un brano di Robbe-Grillet
Se è vero che la foresta è la nostra culla, è incontestabile il fatto che ce ne siamo allontanati e che la guardiamo con timore, talvolta con sospetto. Ma, da territorio in cui si rischia di perdersi, essa può trasformarsi, grazie all’arte, in luogo in cui ci si ritrova. Cedere al suo richiamo, lasciarsi guidare dalle sue voci, sentire il suo respiro può condurci in una zona vergine che abbiamo disimparato a riconoscere, ma che celebra il più profondo accordo fra noi e il mondo, come un tempo si credeva che potesse fungere da intermediario fra la terra, in cui l’albero affonda le sue radici, e il cielo, verso cui eleva i suoi rami.
Tra le molteplici foreste che popolano la letteratura di ogni epoca, da Dodona in poi, e di ogni latitudine, da Brocéliande all’Amazzonia, ne abbiamo scelto una vicina a noi, nella quale prende corpo tutta la carica simbolica che si suole attribuire alla foresta, fino al suo rimando più recente, quello che conduce verso l’inconscio. È una pagina tratta dal secondo volume dell’“autobiografia” di Alain Robbe-Grillet: Angelica o l’incanto. Il capofila del Nouveau Roman francese, colui che ha contribuito a scardinare le regole del romanzo di stampo ottocentesco nello stesso periodo in cui Beckett e Ionesco stravolgevano il teatro, negli anni ’80 del Novecento è ritornato al piacere della narrazione con la sua trilogia autobiografica che ha provocatoriamente intitolato “Romanesques”: tre volumi, nei quali i ricordi si combinano con i fantasmi della mente a evocare, tutti insieme, le fonti da cui è scaturita l’opera. E non stupisce, allora, che vi si trovi la foresta…
Questa specie di autobiografia immaginaria e riflessiva contiene pagine evocative, ricordi del passato, quadri fiabeschi popolati da eteree fanciulle per metà bambine, per metà ammaliatrici, cavalieri intrepidi e dragoni del re che si alternano a figure di famiglia, o personaggi della letteratura e dell’editoria francese in una mescolanza che, lungi dal separare il vissuto dall’immaginato, mostra la sottigliezza e la forza del loro legame. L’innegabile presenza dell’invenzione nella trama stessa del vissuto conduce lungo camminamenti apparentemente privi di legami causali. Ma forse la coerenza è da cercare altrove: forse si trova proprio in quella foresta che custodisce i segreti dell’umanità, una foresta in cui le tracce della Grande Guerra sono così esili da sparire sotto il dirompere delle visioni. Il suo nome inquietante, «Pertes», la foresta delle perdite, non frena i due dragoni che devono attraversarla trasportando su un carro una «giovanissima e molto graziosa prigioniera, di nome Carmina, che i contadini accusano di spionaggio, come un tempo c’era il sospetto della stregoneria». L. B.
«Il tempo è eccezionalmente mite per questa stagione. La bruma si è dissipata prestissimo e un gaio sole traccia raggi obliqui, paralleli o a fasci divergenti, fra i tronchi degli alberi e i rami bassi. La foresta – faggi e giovani olmi – è ancora poco invernale, molte foglie di un bruno lucente rimangono attaccate ai rami. È stata devastata solo in parte dai combattimenti e gli uccelli cinguettano sulle cime come in tempo di pace. Una capinera accompagna i viaggiatori, posandosi da arbusto in brindillo, sulla banchina del sentiero, levandosi in volo al passaggio del carro per posarsi di nuovo, pochi metri più lontano, sui ramoscelli coi loro delicati disegni, sottolineati da gocce a festone di brillante rugiada. […]
Questa foresta ha una brutta reputazione nel paese: la gente del villaggio, indicando loro la strada da seguire, non ha mancato di mettere in guardia i due dragoni contro i molti errori possibili. Il nome “Pertes”, diceva, verrebbe del resto dall’estrema facilità con cui il viaggiatore si sperde, se non conosce perfettamente i luoghi. Alcuni taglialegna, che pure da anni lavoravano lì ogni stagione, addirittura si sarebbero persi in uno dei loro settori familiari, dove a un tratto non riconoscevano più niente, come per effetto di un sortilegio, e avevano errato così per vari giorni, credendo di andare diritto ma ripassando incessantemente negli stessi punti, tornando allora indietro e girando di nuovo in tondo; quasi morti di sfinimento e sull’orlo della follia, dovevano in definitiva la salvezza solo a un piccolissimo uccello canoro, una capinera dalla testa rossiccia che, posandosi di ramoscello in ramoscello davanti a loro e voltandosi per chiamarli quando esitavano a seguirla, li avrebbe ricondotti al loro accampamento cui erano inspiegabilmente vicini. Il capitano, evidentemente, davanti al suo attendente parigino, non ha voluto accordare il minimo credito a queste leggende.
Una cosa, nondimeno, lo preoccupa: già da un certo tempo, non ha più visto le tracce del tombarello. Eppure, il terreno male imbrecciato dei sentieri forestali, senza essere imbevuto di acqua, poiché non ce n’è più da quasi una settimana, rimane in ogni caso sufficientemente umido perché l’impronta delle ruote rivestite di ferro vi resti impressa, almeno a tratti. Tanto più che l’assenza del più debole vento, una volta caduta la brezza leggera che ha fugato la bruma al levar del giorno, impedisce che nuove foglie morte abbiano già cancellato il discreto solco lasciato dai cerchioni metallici.
Adesso, nel sottobosco, regna una strana pace. Non si sentono più del tutto i rumori, anche lontani, del cannoneggiamento, nettamente percepibili la mattina attraverso la pianura, e che a tratti sembravano raddoppiare d’intensità. Si direbbe che si siano zittiti anche gli uccelli, che pure, meno di un’ora fa, gorgheggiavano ancora allegramente sulla cima degli alberi, nel bel sole di questa finta primavera. I suoi raggi dorati, che filtrano tra i rami in fasci sulpiziani, in linea di principio dovrebbero consentire ai due dragoni di orientarsi. Sfortunatamente, la strada è diventata subito troppo sinuosa, tra i mammelloni, le rocce e i borri; si sarebbe dovuta prendere fin dall’inizio la precauzione di fissare una rotta per l’intero percorso e di annotare con esattezza ogni flessione…
Proprio a causa di questo quasi inquietante silenzio che li avvolge, Corinthe, con l’orecchio teso a ascoltare un eventuale cigolio dell’assale di un carro davanti a sé, adesso percepisce sulla destra un colpo regolare, periodico, rapido, che potrebbe corrispondere alla scure di un taglialegna… No, è un rumore più chiaro, più vicino, anche, e meno pesante, più simile a battimani… In ogni caso, non può essere prodotto dal becco di un picchio verde o da qualche altro animale selvatico e, per un attimo, Corinthe pensa di lasciare la strada per avventurarsi nel bosco, raggiungere quell’uomo che lavora e chiedergli se stanno andando nella direzione giusta. Ma non lo fa, poiché riflette subito sui gravi inconvenienti di tale deviazione: forse rischia di perdersi, e questa volta del tutto, se il suono non proviene dalle immediate vicinanze, cosa difficilissima da giudicare.
Pochi passi più avanti, cambia di nuovo parere e per un motivo quasi inconfessabile, anche soltanto a se stesso: sulla destra, a circa venti metri, un uccellino solitario dalla testa rossiccia si è messo improvvisamente a cinguettare. La canzone è discreta, frammentata su poche note incerte dagli andamenti dubitativi o nostalgici o senza speranza o soltanto distratti. Ma, nonostante gli spazi bianchi variabili che bucano a caso la breve melodia, ripete sempre più o meno la stessa frase e questa costanza, insolita nella bruna capinera, pare inquietante all’ufficiale bretone, abituato fin dalla più tenera infanzia a ricevere segnali in codice, provenienti dall’al di là. Ferma il cavallo, ascolta ancora. Dice al compagno, che a sua volta ha fatto la sosta:
“Senti questo rumore d’ascia nella foresta? Aspettami qui. Voglio andare a vedere se c’è qualcuno che possa assicurarmi di essere sulla buona strada”.
“Sì, capitano”, risponde soltanto l’attendente, senza permettersi di fare commenti sulla discutibile origine di un suono, che nemmeno un cittadino può confondere con quello di una scure che intacchi la base di un fusto, non più di quanto possa confonderlo con quello della roncola del potatore.
Corinthe ascolta il ritornello sempre simile della capinera, che però ha acquistato un po’ più di ampiezza, come se fosse ormai consapevole dell’attenzione che le si presta. Ma tutta la buona volontà dell’uditore non è sufficiente per trovare, nelle sonorità di quel linguaggio musicale, una qualsiasi somiglianza con sillabe umane, in francese come in tedesco. Dice:
“Se chiamo una volta, grida anche tu. E mi orienterò sulla tua voce per ritrovarti. Se chiamo più volte di seguito, vieni subito a raggiungermi”
“Sì, capitano”, ripete il cavaliere poco incline alle chiacchiere e che, evidentemente, non ha l’abitudine di scambiare riflessioni personali con il suo capo.
Appena Henri de Corinthe si avvicina al fragile messaggero dall’incomprensibile messaggio, questo si alza in volo e va a posarsi venti metri più in là, nella direzione da cui sembra provenire quel rumore di mani che batterebbero con vigore l’una contro l’altra. Senza aspettare, di nuovo voltato verso l’ufficiale che lo segue, l’uccello riprende l’insistente interrogazione o la messa in guardia o il richiamo… Il terreno, agevole benché piuttosto molle e anche, a tratti, un po’ spugnoso, sale in dolce pendio. I vecchi faggi hanno il vantaggio d’impedire ai loro piedi qualsiasi vegetazione, tranne i muschi, e di non avere quasi rami bassi. Il cavallo bianco, sullo spesso tappeto di foglie rossicce che sprofondano sotto gli zoccoli, sale sul leggero declivio senza molta fatica.
Ancora venti metri, e il conte Henri adesso sospetta che quei colpi ripetuti provengano dal battitoio di una lavandaia, che percuota con lena la biancheria umida. Del resto, si direbbe che, trenta passi più in là, sia percepibile anche un mormorio d’acqua viva, che, per la scena immaginata, costituisce un adeguato fondo sonoro e che rafforza così la nuova ipotesi del cavaliere. Nei dintorni, però, non c’è traccia di ruscello e il terreno continua a salire fino alle grosse rocce grigie dove è appena atterrata la capinera, per ricominciare instancabilmente le stesse sette note, su un ritmo sempre più sicuro.
Ma ecco levarsi all’improvviso una melodia umana, e senza dubbio femminile, vicinissima, che è scandita dai colpi del battitoio e che si mescola al canto dell’uccello. È una voce gradevolissima, giovane, fresca, dal sapore della frutta, carezzevole, con dolcezze vellutate in mezzo forte, gorgheggi appena udibili, riprese appassionate, tenere modulazioni, risonanze calde e profonde nelle note basse. Corinthe si è fermato, stupefatto per quella presenza immateriale e miracolosa. Si sente, a non più di cinque o sei metri, una giovane che canta, ma che rimane invisibile; si sente l’onda scrosciare e la paletta di legno battere in cadenza le camicette di lino bianco, mollemente arrotolate, ma non ci sono né torrente né rivolo né lavatoio; si sente sempre la capinera rossa, ma è scomparsa, forse appollaiata in alto nelle ramosità, dove si confonde fra le ultime foglie cupree dei faggi con i rami d’argento.
In una luce bionda, improbabile di questa stagione, artificiale o fiabesca, l’impressione d’immobile serenità quasi soprannaturale è ancora accresciuta dal maestoso scenario del bosco d’alto fusto, pittoresco e roccioso come su un quadro del diciottesimo secolo: Hubert Robert o Jean-Baptiste Huet o, forse, Corot che, cinquant’anni più tardi, dipinge la foresta di Brocéliande. L’insieme del paesaggio e del suo armonioso accompagnamento pare tanto più irreale quanto più la guerra è assente da esso e non ha lasciato la minima traccia, come se quei luoghi magici fossero stati dimenticati dai combattimenti, dimenticati dalla storia, dimenticati dal tempo.
[estratto dal libro Angelica o l'incanto, di Alain Robbe Grillet, edito da Spirali]
Il fait un temps exceptionnellement doux pour la saison. La brume s est dissipée très tôt et le gai soleil trace des rais obliques, parallèles ou en faisceaux divergents, entre les troncs des arbres et les basses branches. La forêt — hêtres et ormeaux — est encore assez peu hivernale, bien des feuilles brunies demeurent accrochées aux ramures. Elle n’a été que partiellement ravagée par les combats et des oiseaux pépient dans les cimes, comme en temps de paix. Une espèce de fauvette accompagne les voyageurs, en se posant d’arbuste en brindille, sur le bas-côté de la petite route, s’envolant au passage de la charrette pour se reposer quelques mètres plus loin, dans les ramilles aux dessins délicats, soulignés de rosée brillante en chapelets de gouttelettes. […]
Cette forêt a mauvaise réputation dans le pays: les gens du village, en leur indiquant la route à suivre, n’ont pas manqué de mettre en garde les deux dragons contre les multiples erreurs possibles. Le nom de «Pertes», disaient-ils, proviendrait d’ailleurs de l’extrême facilité avec laquelle le voyageur s’y égare, quand il ne connaît pas les lieux parfaitement. Des bûcherons, qui pourtant travaillaient ici chaque saison, depuis des années, se seraient même perdus dans un de leurs secteurs familiers, où ils ne reconnaissaient plus rien tout à coup, comme sous l’effet d’un sortilège, et ils avaient erré ainsi pendant plusieurs jours, croyant avancer tout droit mais repassant sans cesse aux mêmes points, revenant alors en arrière et tournant en rond de nouveau; presque morts d’épuisement et sur les bords de la folie, ils ne devaient en fin de compte leur salut qu’à un tout petit oiseau chanteur, une fauvette à tête rousse, qui, se posant de branchette en branchette devant eux et se retournant pour les appeler quand ils hésitaient à la suivre, les aurait ainsi ramenés jusqu’à leur campement, dont ils étaient inexplicablement proches. Le capitaine, évidemment, devant son ordonnance parisien, n’a pas voulu accorder le moindre crédit à ces légendes.
Une chose, néanmoins, l’inquiète depuis un certain temps déjà, il n’a plus aperçu les traces du tombereau. Pourtant, le sol mal empierré des chemins forestiers, sans être gorgé d’eau puisqu’il n’a pas plu durant presque une semaine, demeure en tout cas suffisamment humide pour que l’empreinte des roues garnies de fer y reste marquée, au moins par endroit. D’autant que l’absence du plus faible vent, une fois tombée la légère brise qui a chassé la brume au lever du jour, interdit que de nouvelles feuilles mortes aient effacé déjà le discret sillon laissé par les bandages métalliques.
Une étrange paix règne à présent dans le sous-bois. On n’entend plus du tout les bruits, même lointains, de la canonnade, nettement perceptibles ce matin, à travers la plaine, et qui par moment semblaient redoubler d’intensité. On dirait que les oiseaux eux-mêmes se sont tus, qui pourtant, il y a moins d’une heure, pépiaient encore gaiement vers la cime des arbres, dans le joli soleil de ce faux printemps. Ses rayons dorés, qui filtrent en faisceaux saint-sulpiciens à travers les branches, devraient en principe permettre aux deux dragons de s’orienter. Malheureusement, la route est vite devenue trop sinueuse, entre les mamelons, les rochers, les ravines; il aurait fallu prendre la précaution, dès le départ, de se fixer un cap pour l’ensemble du parcours et noter ensuite chaque infléchissement avec précision…
A cause, sans doute, de cet à demi inquiétant silence qui les enveloppe, Corinthe, dont l’oreille tendue guette l’éventuel grincement d’un essieu de charrette, devant lui, perçoit maintenant, sur sa droite, un choc régulier, périodique, assez rapide, qui pourrait correspondre à la cognée d’un bûcheron… Non, c’est un bruit plus clair, plus proche aussi, et moins lourd, ressemblant davantage à des claquements de mains… Ça ne pourrait guère, en tout cas, être produit par le bec d’un pivert ou par quelque autre animal sauvage, et Corinthe songe un instant à quitter la route pour s’aventurer à travers bois, rejoindre cet homme qui travaille et lui demander s’ils vont toujours dans la bonne direction. Mais il n’en fait rien, ayant aussitôt réfléchi aux graves inconvénients d’un tel détour: ne risque-t-il pas de se perdre cette fois tout à fait, pour peu que le son ne provienne pas des abords immédiats, ce dont il est fort difficile de juger?
Quelques pas plus loin, il change d’avis à nouveau, et cela pour une raison presque inavouable, serait-ce à soi-même: sur sa droite, à une vingtaine de mètres environ, un petit oiseau solitaire à tête rousse s’est mis soudain à babiller. Sa chanson est discrète, fragmentée sur quelques notes incertaines aux allures dubitatives, ou nostalgiques, ou sans espoir, ou bien seulement distraites. Mais, en dépit des blancs variables qui trouent comme au hasard la brève mélodie, c’est toujours plus ou moins la même phrase qu’il répète, et cette constance, inhabituelle chez la fauvette brune, paraît troublante à l’officier breton, accoutumé dès sa plus petite enfance à recevoir des signaux codés, venus de l’au-delà. Il arrête son cheval, il écoute encore. Il dit à son compagnon, qui vient de faire halte à son tour:
«Entends-tu ce bruit de hache dans la forêt? Attends-moi ici. Je veux aller voir s’il y a quelqu’un qui pourrait m’assurer que nous sommes sur la bonne route.
— Oui, mon capitaine», répond seulement l’ordonnance, sans se permettre de commentaire sur l’origine discutable d’un son, que même un citadin ne pourrait confondre avec celui d’une cognée entamant la base d’un fût, pas plus qu’avec la serpe de l’élagueur.
Corinthe écoute, lui, le refrain toujours semblable de l’oiseau, qui a pris cependant un peu plus d’ampleur, comme s’il était conscient désormais de l’attention qu’on lui porte. Mais toute la bonne volonté de l’auditeur reste insuffisante pour trouver dans les sonorités de ce langage musical une ressemblance quelconque avec des syllabes humaines, aussi bien en français qu’en allemand. Il dit:
«Si j’appelle une fois, crie à ton tour. Et je me guiderai sur ta voix pour te retrouver. Si j’appelle plusieurs fois de suite, viens aussitôt me rejoindre.
— Oui, mon capitaine», répète le cavalier peu enclin au bavardage et qui n’a guère l’habitude, apparemment, d’échanger des réflexions personnelles avec son chef.
Aussitôt qu’Henri de Corinthe s’approche du frêle messager à l’incompréhensible message, celui-ci s’envole et va se poser vingt mètres plus loin, dans la direction d’où semble arriver ce bruit de mains qui claqueraient avec vigueur l’une contre l’autre. Sans attendre, tourné de nouveau vers l’officier qui le suit, l’oiseau reprend son insistante interrogation, ou sa mise en garde, ou son appel… Le sol est assez commode, quoique plutôt mou, et même un peu spongieux par endroit; il s’élève en pente douce. Les vieux hêtres ont l’avantage d’interdire à leur pied toute végétation, hormis les mousses, comme aussi de n’avoir presque plus de branches basses. Le cheval blanc, sur l’épais tapis de feuilles rousses qui s’enfoncent sous les sabots, gravit la faible déclivité sans grand mal.
Vingt mètres encore et le comte Henri soupçonne à présent que ces claques répétées proviendraient du battoir de quelque lavandière, frappant du linge humide avec entrain. On croirait d’ailleurs, trente pas plus loin, qu’un murmure d’eau vive est également perceptible, constituant pour la scène imaginée un fond sonore adéquat, et fortifiant ainsi la nouvelle hypothèse du cavalier. Aux alentours, il n’y a pourtant aucune trace de ruisseau, et le terrain monte toujours jusqu’à de gros rochers gris où la fauvette vient d’atterrir, pour inlassablement recommencer ses mêmes sept notes, sur un rythme de plus en plus assuré.
Mais voici qu’une mélodie humaine — et sans aucun doute féminine — s’élève soudain, toute proche, scandée par les coups du battoir et se mêlant au chant de l’oiseau. C’est même une fort jolie voix, jeune, fraîche, fruitée, câline, avec des douceurs de velours en mezzo forte, des murmures de gorge à peine audibles, des reprises passionnées, des modulations tendres, des résonances chaudes et profondes dans les notes basses. Corinthe s’est arrêté, stupéfait par cette présence immatérielle et miraculeuse. On entend une fille qui chante, à cinq ou six mètres tout au plus, mais elle demeure invisible; on entend l’onde qui ruisselle et la palette de bois qui frappe en cadence les chemisettes de lin blanc, roulées en boule lâche, mais il n’y a ni torrent, ni filet d’eau, ni lavoir; on entend toujours la fauvette rousse, mais elle a disparu, perchée là-haut sans doute parmi les branchages, où elle se confond avec les dernières feuilles cuivrées des hêtres aux rameaux d’argent.
Dans une lumière blonde improbable en cette saison, artificielle ou féerique, l’impression d’immobile sérénité quasi surnaturelle est encore accrue par le majestueux décor de haute futaie, pittoresque et rocheux comme sur un tableau du XVIIIe siècle, Hubert Robert ou Jean-Baptiste Huet, ou peut-être Corot peignant cinquante ans plus tard la forêt de Brocéliande. L’ensemble du paysage et de son harmonieux accompagnement parait d’autant plus irréel que la guerre en est absente et n’y a pas laissé la moindre trace, comme si ces lieux magiques avaient été oubliés par les combats, oubliés par l’histoire, oubliés par le temps.
[Alain Robbe–Grillet, Angélique ou l’enchantement, Les Editions de Minuit, 1987]
Tratto dal primo numero di NEMETON, aprile 2009
Tags: Alberi, letteratura, pensiero
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