I discepoli di Sais
Inverno 1797 – 1798: Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis («colui che dissoda terra vergine») scrive I discepoli di Sais (1). Il racconto inizia facendo riferimento a una scrittura cifrata che è visibile ovunque: su ali, gusci d’uovo, nuvole, neve, nei cristalli e negli strati rocciosi, sopra le acque nel momento in cui si congelano, dentro e fuori le montagne, le piante, gli animali e gli uomini, nella luce del cielo, nelle placche di pece e vetro toccate e strofinate, nelle scaglie di ferro intorno alla calamita e nelle bizzarre combinazioni del caso. In esse si presume che sia contenuta la chiave di questa meravigliosa scrittura, la sua grammatica: ma la supposizione non tollera forme fisse, quasi volesse negarci qualsiasi chiave che possa risolvere il mistero. Il profondo sapere di Novalis viene fuori nella descrizione del maestro di Sais: «La voce che parlava era certamente quella del nostro maestro, egli infatti sa collegare le tracce che sono disperse qua e là. Una luce particolare si accende nel suo sguardo allorché ci mostra l’antico alfabeto runico ed egli scruta i nostri occhi per vedere se anche in noi brilla la luce che rende i segni chiari e comprensibili. Se ci vede tristi perché la notte non ci abbandona, ci consola e promette all’osservatore diligente e tenace una felicità futura. Spesso ci ha raccontato che quand’era bambino l’impulso a esercitare i sensi, a occuparli, ad appagarli non gli dava tregua. Osservava le stelle e sulla sabbia tracciava la loro posizione, le loro orbite; scrutava di continuo il mare dell’aria e non si stancava di considerarne la chiarezza, i moti, le nubi, le luci. Raccoglieva pietre, fiori, insetti di ogni specie e li ordinava secondo criteri diversi. Prestava attenzione agli uomini e agli animali, seduto in riva al mare cercava conchiglie. Spiava il suo animo, i suoi pensieri deciso a ignorare dove l’avrebbero spinto i suoi desideri. Quando divenne adulto iniziò a viaggiare: visitò altri paesi, altri mari, conobbe altri climi, stelle ignote, piante animali e uomini sconosciuti: discendeva nelle grotte e rilevava come la conformazione della terra presentasse banchi e strati multicolori; plasmava nell’argilla rocce dalle strane forme. Ritrovava dappertutto cose conosciute però mischiate o abbinate in maniera stravagante, e in tal modo le cose più singolari venivano a disporsi in un loro particolare ordine dentro di lui. Più tardi cominciò a scoprire in ogni cosa l’esistenza di collegamenti, relazioni, coincidenze. Presto non considerò più nulla isolatamente. In questo quadro senza margini e dai colori più diversi cresceva la capacità di percezione dei suoi sensi: egli udiva, vedeva, toccava e pensava nello stesso tempo. Prendeva gusto a collegare tra loro cose lontane. Ora le stelle erano per lui uomini, ora gli uomini stelle, le pietre animali, le nuvole piante; giocava con le forze e i fenomeni; sapeva dove e come poteva ritrovare o suscitare questo o quello. E sapeva inoltre trarre dalle corde suoni e accordi.» Alla ricerca di «quell’armonia uomo/natura che un tempo, nell’antica età dell’oro, prima del diluvio, gli uomini possedevano spontaneamente».
Ritengo che ci siano stati popoli e culture che hanno conosciuto profondamente la natura e che, con l’uso continuo e abbinato di sensi e ragione, come fonti di conoscenza, sono arrivati a gradi di civiltà piuttosto elevati per quanto riguarda tale pensiero; alludo ai sorrisi beffardi degli Etruschi, al gran rispetto per la Madre Terra degli Indiani d’America, tutti e in particolare i Maya, penso ai miti della civiltà celtica.
Oggi invece, come sottolinea Paolo Montanari nella nota introduttiva a I discepoli di Sais, a causa della prevalenza della ragione strumentale – e aggiungerei della sua forma più rozza e perversa, il pensiero unico di molte teorie economiche dominanti oggi – unicamente preoccupata di selezionare, classificare, controllare e dominare i propri oggetti, il senso, che un tempo pervadeva ogni aspetto dell’esperienza umana, “si ritira” producendo quell’atmosfera di disincanto (eclisse degli dei) che è uno dei tratti distintivi di questo nostro secolo, così totalitario e disperato. Religione, mito, arte vengono accantonati come residui di precedenti età dell’uomo, espressioni del suo lato irrazionale, pulsionale, primitivo. Il maestro di Sais, invece, era molto vicino – senza saperlo! – a Gregory Bateson, alla sua concezione della «struttura che connette»: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Giustamente, Montanari suggerisce che l’essenza stessa di tale struttura sia estetica e che «per questa via l’arte, dichiarata più volte morta, ritrova il suo posto nel mondo, non solo come espressione del bello, ma come modo di conoscere, dato che conoscenza e bellezza coincidono».
Gli uomini in errore, ci insegna il maestro di Sais, sono coloro che vogliono sottomettere la natura e che pensano che, così facendo, il mondo intero ci apparirà chiaro come un enorme codice di cui possediamo la chiave. È l’illusione dei tecnocrati. Forse, un’illusione antichissima, quella di Prometeo. Non a caso la figura del Titano ribelle campeggia tra i “santi laici” di qualsiasi calendario “progressista”. La sua anticipa l’illusione degli “apprendisti stregoni” di oggi, l’illusione di chi crede di aver trovato in semplici algoritmi (per quanto sofisticati) il talismano per asservire la natura. La natura ha carattere evolutivo e più si cerca di comprenderla, nel senso etimologico di racchiuderla, imprigionarla nei nostri schemi, più il suo scorrere crea relazioni e complessità, memorie e possibilità creative. È lo stesso passare del tempo che non ci permetterà mai di cogliere l’attimo fuggente della conoscenza globale. Di nuovo I discepoli di Sais ci riservano una sorpresa, la favola di Fiordirosa e Giacinto, nella quale sembra sentir scorrere l’evoluzione biologica: «Anche la regione era diventata più ricca e diversa, l’aria più tiepida e azzurra, la strada più liscia, cespugli verdi lo attiravano con la loro ombra deliziosa, ma egli non comprendeva le loro parole, anzi non sembravano dialogare affatto, eppure gli riempivano il cuore di verdi chiaroscuri e vi versavano calma e freschezza. Sempre più cresceva la sua dolce aspirazione, sempre più larghe e rigogliose diventavano le foglie, sempre più rumorosi e allegri gli uccelli e gli animali, più gustosi i frutti, più impenetrabile l’azzurro del cielo, più calda l’aria, più ardente il suo amore, il tempo scorreva sempre più veloce. »
Continua nel numero 2 di Nemeton, TEMA: BELLEZZA