di Eduardo Zarelli
Nella foto: Ramon Panikkar
Tecnica e tecnologia vengono generalmente adoperate come sinonimi nel parlare di tutti i giorni, ma si tratta di un grosso fraintendimento: la tecnica è un’arte, l’arte di fare bene qualcosa con le proprie mani e con la propria abilità ed inventiva; la tecnologia è un modo di produzione industriale basato sulla capacità, da parte delle macchine, di replicare indefinitamente, al minor costo possibile, una serie di oggetti estremamente complessi.
Quella in cui noi oggi viviamo è una società tecnocentrica, per adoperare la felice espressione di Ramon Panikkar: ogni singolo aspetto della nostra vita, della nostra economia, del nostro tempo libero, sono organizzati in funzione della tecnologia, non della tecnica; ed è questo che le conferisce la sua tipica caratteristica di spersonalizzazione e di anonimità.
Il passaggio dal modo della tecnica al modo della tecnologia è definibile come il passaggio dal regno della qualità al regno della quantità e, inoltre, come il passaggio dagli strumenti di primo grado, basati sull’intelligenza e sulla forza fisica dell’uomo, agli strumenti di secondo grado, basati su delle macchine sempre più complesse. Costruire un ponte che scavalca un fiume in una stretta e ripida vallata alpina, adoperando materiali naturali che la mano dell’uomo può fisicamente innalzare, e la sua intelligenza può disporre in maniera tale da vincere la forza di gravità, è un’opera tecnica; anche dipingere la «Gioconda» o comporre la «Toccata e fuga in Re minore» sono operazioni che richiedono il possesso e l’impiego di capacità tecniche, oltre che creatività e senso estetico. Costruire decine o centinaia di ponti in cemento armato, tutti uguali, sulla base di progetti uniformi e mediante un larghissimo impiego di macchine potenti e sofisticate, è un’operazione puramente tecnologica; così come lo è adoperare il calcolatore elettronico per “creare” immagini decorative o musica da intrattenimento. Chiunque può farlo, purché possieda determinate conoscenze afferenti alla tecnologia; ma solo il genio può realizzare delle opere uniche, che uniscano la bellezza, la funzionalità e la compatibilità ambientale.
La tecnica produce opere costose, ma notevolmente durevoli; la tecnologia immette sul mercato oggetti in serie, a costo sempre più basso, ma di durata sempre più limitata. Il loro basso costo, poi, fa sì che si preferisca acquistarne di nuovi, piuttosto che riparare i vecchi. Potremmo anche dire che la tecnologia subentra alla tecnica allorché il Logos strumentale e calcolante si sostituisce all’anima delle cose; questa è, appunto, la concezione di Raimon Panikkar, il filosofo indiano-catalano che sosteneva la necessità, per l’uomo, di tornare ad accettare la propria vulnerabilità e la propria finitezza, cioè il limite intrinseco della propria condizione ontologica, rinunciando al folle orgoglio dell’homo tecnologicus. Per lui, ciò che l’uomo deve riconquistare è una “nuova innocenza”, libera dai secondi fini e dai condizionamenti interessati, la sola che può permetterci di rientrare in noi stessi, nelle nostre autentiche profondità, ritrovando l’essenza della nostra anima; ed è un processo di liberazione che continua sempre, per tutto l’arco della nostra vita, perché non arriva mai il momento in cui possiamo ritenerlo concluso. Per Panikkar, nella società attuale – devastata da una smania manipolatrice da parte del Logos razionale che fa violenza sia alle cose, che all’anima delle persone – il rischio è quello di cadere nelle due opposte, ma speculari forme di disperazione rappresentate dalla violenza distruttiva del nichilista e dal cinismo rinunciatario del qualunquista. Ad esse, egli contrappone il modello esistenziale del mistico: dell’uomo – cioè – che sa conservare e prendersi cura dell’integrità del proprio essere, perché sa mettersi in comunione con tutta la realtà e non si relaziona, come fanno gli altri, con una parte soltanto di essa, mettendosi in conflitto con tutto il resto. Così si esprime Panikkar sulla genesi e sugli effetti dell’odierno tecnocentrismo: «La tecnologia è in se stessa uno strumento che presto si trasforma in fine. Attività, creatività o fabbricazione sono parole che fanno riferimento all’homo faber (e che desidero riservare per la tecnica), mentre fatica e lavoro sono parole-chiave nel sistema tecnologico. In quest’ultimo caso l’uomo ha già cessato di essere un artigiano ed è diventato un lavoratore; non lavora a una sua opera per il proprio benessere, non è un operaio, ma lavora per qualcuno che non conosce e con cui probabilmente non andrebbe d’accordo, al prezzo di un salario che gli permetterà non solo di mangiare sale (“salarium”), ma di fare apparentemente quello che vuole. Non sta più fieramente in piedi sopra la madre terra, né cammina a testa alta guardando il cielo. Cavalca su quattro ruote per una strada asfaltata e deve soltanto guardare avanti. Il percorso glielo danno già bell’e fatto». L’uomo industrializzato è costretto, suo malgrado, a camminare sempre avanti e a guardare sempre avanti, non solo metaforicamente: una persona che venga investita in autostrada, ad esempio mentre sta cambiando una ruota, può essere schiacciata da decine di veicoli lanciati a forte velocità, prima che qualcuno riesca a sottrarne il cadavere ad ulteriori oltraggi. Nella sua marcia automatica e inarrestabile, decisa dal sistema tecnocratico, l’essere umano travolge tutto ciò che si trova sulla sua strada: i salmoni si sforzano invano di scavalcare la grande diga di cemento che sbarra loro le acque del fiume, come i caribù di oltrepassare, nelle loro migrazioni, l’oleodotto che attraversa la tundra; e lo stormo di anatre selvatiche che finisce, maciullato, nella turbina di un aereo, non desta altra reazione che il disappunto del pilota e il malumore dei passeggeri, costretti a un atterraggio di emergenza che li defrauderà di alcuni minuti del loro preziosissimo tempo.
La società tecnocentrica non è costruita a misura d’uomo, ma di macchina e non solo gli operai, ma anche i tecnici di più alto livello e i dirigenti della produzione, sono – proprio come tutti gli altri – nella posizione subalterna di semplici appendici di un processo impersonale e inesorabile che, una volta messo in movimento, niente e nessuno potrebbe arrestare o modificare. Vi è un deficit, se non addirittura una perdita di anima, in tutto questo; vi è – come diceva Pasolini – uno sviluppo senza progresso: freddo, brutale, puramente quantitativo. In un respiro di civiltà bisogna invece guardare in alto e oltre il dato empirico. Quando lo sguardo dell’uomo sa innalzarsi verso il cielo, egli – come fa l’albero – protende il proprio essere vitale verso le forze cosmiche alle quali è collegato per mille vie e dalle quali riceve l’aria, la luce, l’acqua che gli sono indispensabili. Al tempo stesso, colui che sa guardare in alto ha anche i piedi ben piantati sulla Terra: il suo passo non è frenetico né meccanico, come quello dell’uomo alienato dai processi tecnologici; ma è lento e misurato, come si addice a chi possiede la consapevolezza del proprio posto nel mondo e dell’armonia nella quale è inserito. Una nuova alleanza tra cultura e natura, basata sulla piena consapevolezza del legame che lega tra loro tutti gli esseri viventi, dal più umile al più complesso proietta un paradigma che per metamorfosi e non utopia trasformi il riduzionismo meccanicista in una società olistica: perché l’uomo non è padrone dell’esistente ma parte consapevole del cosmo, ospite del pianeta che condivide con innumerevoli altre specie viventi quindi primo custode della natura tutta. La via “alta” e in contro tendenza dell’Essere.
Eduardo Zarelli
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