di Enrico Baldini Prof. em.to Università di Bologna
Nei secoli remoti la classificazione e la descrizione degli organismi viventi concessero reiterate deroghe alle barriere morfogenetiche interposte tra il mondo vegetale e quello animale. L’ignoranza del ruolo svolto dal DNA nelle determinazioni tassonomiche degli esseri viventi, l’incerta conoscenza dei loro meccanismi riproduttivi, l’acritica accettazione delle più arbitrarie fantasie naturalistiche, concorsero a far sì che gli studiosi di un tempo arrivassero a descrivere piante dotate di attributi animali ovvero capaci di inusitati comportamenti biologici od ecologici.
Alcuni esempi sono sufficienti per dimostrare come, in passato, l’immaginario abbia potuto spesso spodestare la verità naturalistica.
° Nei testi antichi la Mandragora (M. officinarum L.) era rappresentata con il duplice aspetto di una pianta e di un uomo o di un fanciullo. In realtà le sue radici bifide, quasi che fossero gambe divaricate, rievocano le sembianze di una figura maschile (M. vernalis Bert.), con fiori bianco-verdastri, o di una figura femminile (M. autumnalis Bert.), con fiori violacei. Essendo la Mandragora una pianta velenosa la sua estirpazione manuale era vivamente sconsigliata; si suggeriva invece di ricorrere ad un robusto cane che, legato ad essa con un laccio, esercitasse una energica trazione.
Nel Medioevo alla Mandragora furono attribuite proprietà taumaturgiche e terapeutiche. In effetti le sue radici contengono vari alcaloidi quali l’atropina, la scopolamina, la ioscina, la iosciamina e la mandragorina, fondamentali princìpi usati in occasione di pratiche esoteriche e di prescrizioni farmacologiche aventi finalità psicoattive, antisettiche, anestetiche, narcotiche, soporifere e afrodisiache.
° Secondo accreditate leggende che risalgono all’XI° secolo l’Agnello vegetale della Tartaria, noto anche con i nomi di Borometz, Agnus scythicus, Faduah, era un agnello unito, tramite il suo cordone ombelicale, ad una Felce del gen. Polypodium. L’agnello avrebbe avuto sangue e ossa come i normali ovini. La flessibilità del suo cordone ombelicale gli avrebbe consentito di raggiungere agevolmente il terreno circostante per brucarvi l’erba.
Secondo altre versioni la Felce sarebbe stata collegata a più agnelli tramite lunghi rami flessibili. Al termine del loro sviluppo questi ovini si sarebbero staccati dalla pianta-madre e avrebbero proseguito autonomamente la loro esistenza fino a che, esaurito il pascolo, avrebbero cessato di vivere.
° Nella monumentale opera geografica di Sir Johan de Mandeville (“Voyages”. Ms. XIV° sec., c/o Cotton Collection, British Library) compare una pianta di Cotone (Gossypium sp.) i cui frutti maturi (capsule), schiudendosi, avrebbero liberato degli agnellini (…)
CONTINUA NEL NUMERO 7 DI NEMETON
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