Di Raffaella Colombo
Immagine di Franco Raggi
Dalla corolla di copiapoa solaris,
nella dura terra del deserto di Atacama…
la mia architettura instabile.
Si parla di disequilibri, di contemplazione dell’errore,
di mancanza di assolute certezze progettuali,
di architetture instabili…
Mi riferisco ad architetture individuali.
Non elencabili. Non solo mentali. Non impossibili.
Scrivere, proporre, credere ed entusiasmarsi.
Ma quando si tratta di provare a realizzare
un’architettura instabile scendendo in campo,
si forma il vuoto. Improvvisamente.
Non inaspettatamente.
Chi accetta consapevolmente i rischi? E quali? Se esistono.
Ritengo che queste architetture non siano espressione
di trasgressione o giochi d’azzardo
ma opere il cui sviluppo avvenga simultaneamente,
da coloro che le vivono,
su piani complanari per intensità e densità.
Piani inclinati. Non piani geografici. Non distonie geometriche.
Per esse, soggettività e percezione emotiva
divengono dominanti e la razionalità schiavizzante.
Non sono evitabili precipitanti buchi neri.
Vortici irrefrenabili.
Avvilupparsi e librarsi continuamente.
Scendere, salire, affacciarsi.
Turbinando nella gioviana Grande Macchia Rossa.
Frutto di riflessioni, insuccessi, velate ed auspicate fioriture…
Non di visionarie elucubrazioni involute di folli architetti.
Sterili sperimentazioni, innovazione per innovazione.
Le architetture instabili, per complessità criptica,
risultano architetture difficili. Illogiche. Reazionarie.
Affaticanti. Generatrici di dubbi. Eppure calamitanti.
Per questo non necessitano di minuziose definizioni.
Armonia, empatia e biunivocità come doni intuibili.
Si avvertono nel corpo e nell’anima.
Prepotentemente. E permangono.
Distano dall’essere involucro.
Non si decodificano scientificamente.
Non vestono materiali camuffanti.
Stabili ed essenziali nei contenuti,
alchemiche ed esplosive nella mutevolezza,
affascinanti nel mistero.
Accompagnanti ed ossessionanti come
quotidiane presenze fortemente desiderate.
Si nutrono d’imprevedibile e di determinazione
per reali opportunità qualitative. Non necessitano alibi.
Non banali pretesti o machiavelliche strategie per esistere.
Se non suscitano interesse muoiono silenti,
se sembrano addormentarsi, sopravvivono per rinascere.
Per forza intrinseca e sintesi culturale vanificano ogni limite.
Sono ardore del fare. Non utopia.
Sono contrapposte alla stabile architettura iperstatica,
come falso rifugio di sé. Penombra tranquillizzante.
Dove architettura?
Dove? Le potenzialità del non visibile…
Dove? L’architetto che intravede…
Dove? La bellezza dell’arte…
Dove? L’imprevisto, l’errore, la spontaneità dell’evolvere…
Dove? La volontà, la fatica, le scottature, i tagli…
Per comprendere e sostenere architetture instabili
occorre essere più che bravi architetti,
qualcosa che non si apprende sui testi.
Coraggio, lungimiranza, ponderatezza, slancio emotivo,
fervore e fiducia da cui deriva speranza.
L’impeto che offusca e muove dall’interno…
Oltre la certezza. Oltre sé.
Amore.
Tags: architecture, pensiero