Proponiamo qui un estratto da un testo di Matteo Meschiari, che sarà presente a High Green Tech Symposium il 4 ottobre al Made Expo di Milano.
1. Pleistocene attuale
Il paesaggio non è nato con Petrarca sul Monte Ventoso o nel Rinascimento con la pittura fiamminga, proprio come Henry Ford o Armand Peugeot non hanno inventato la ruota. Il paesaggio come forma simbolica è invece una modalità innata del pensiero, un intreccio di strutture cerebrali e cognitive modellatosi nell’arco di centinaia di migliaia di anni a partire dalle esperienze sensoriali di Ominidi e Homo sapiens sapiens nei loro rispettivi ecosistemi. Alcuni ricercatori preferiscono parlare in questo caso di proto-paesaggio1 o più semplicemente di ambiente, territorio, ecosistema, riservando al termine paesaggio la prerogativa squisitamente culturale e intenzionale del rapporto uomo-natura2. Ma per sfuggire da subito alla «falsa opposizione tra natura e cultura, [...] fonte di perniciosi equivoci» [Buttitta 1996: 16], bisogna osservare che la differenza tra realtà oggettiva trasformata [cultura] e realtà oggettiva non trasformata [natura] è discutibile; anche la realtà oggettiva non trasformata in quanto sperimentata, dunque rappresentata, è il prodotto di una trasformazione [Buttitta 1996: 16].
In altre parole, quando percepito dall’uomo, il territorio è già rappresenta-
1 Cfr. Berque [1995], Dematteis [2003].
2 Vd. Bonesio [2007].
QUADERNI DI SEMANTICA / a. XXIX, n. 1, giugno 2008, pp. 149-162.
zione e, passando dalla sincronia alla diacronia, possiamo parlare a pieno titolo
di paesaggio dal momento stesso in cui Homo sapiens sapiens fa la sua comparsa.
Sviluppare un discorso sul paesaggio trascurando questa prospettiva di lunga
durata significa fraintendere i fenomeni fondamentali che regolano il nostro modo
di rapportarci all’ambiente. La primatologia, l’antropologia fisica, la sociobiologia,
l’ecologia cognitiva, la paletnologia, l’etnologia comparata, l’etnolinguistica,
ci aiutano a ricostruire il quadro storico (filogenetico, ontogenetico, culturale)
della coevoluzione dell’uomo con l’ambiente terrestre. L’idea è cercare l’a monte
biologico e culturale di ogni enunciato sul paesaggio, perché ricostruire la nostra
preistoria ecologica significa comprendere che l’uomo contemporaneo, di fronte
a una veduta di terre, non è soltanto un Homo aestheticus dalle raffinate opzioni
intellettuali, ma è l’erede inconsapevole di un patrimonio cognitivo innato che rimonta
al Pleistocene, e che reca tracce vitali delle peculiarità neurofisiologiche e
simboliche dei cacciatori-raccoglitori arcaici. L’idea non è nuova, ha un padre geniale
e un geniale libro di riferimento, The Tender Carnivore and the Sacred Game.
Il padre della teoria e autore del libro è il primatologo Paul Shepard3, fondatore della
Human Ecology, antropologo ‘selvaggio’, controverso filosofo ambientalista, senza
il quale le idee di questo saggio non potrebbero esistere. Terra sapiens è infatti
un progetto a vasto raggio che, consegnato a queste pagine in forma di anticipazione4,
vuole approfondire e sviluppare le intuizioni di Shepard mettendole in
connessione con alcuni studi più recenti, come quelli di Steven Mithen5 e David
Lewis-Williams6 sulle origini della mente, o a studi più classici, ma che vale la pena
rileggere in chiave ‘paesaggistica’, come quelli sul pensiero selvaggio7, sulla struttura
che connette8 o sul rizoma9. Lo scopo è quello di delineare un modello antropologico
in cui il concetto di paesaggio non sia più il sottoprodotto storico di una
cultura data, ma la traccia di un paradigma culturale trans-storico e universale che,
radicato nella nostra biologia e nelle nostre strutture cognitive, continua a emergere
ciclicamente e localmente per aiutarci a pensare la complessità.
2. Quando Ominidi e Homo pensavano la Terra
Parlare di Ardipithecus (6 milioni di anni fa) o di Australopithecus afarensis
(4-2,5 milioni di anni fa) in un discorso sul paesaggio ha senso per almeno due
ragioni: da un lato siamo portati a considerare appannaggio della specie umana
un fascio di facoltà che hanno radici biologiche molto più antiche; dall’altro il
nostro sistema cognitivo si è formato durante milioni di anni di evoluzione come
risposta a un sistema ecologico e a condizioni di vita oggi scomparse. Anche
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3 Vd. Shepard [1998].
4 Sto da tempo lavorando a un libro sull’argomento: cfr. Meschiari [in.prep.].
5 Vd. Mithen [1996, 1998, 2006].
6 Lewis-Williams [2002].
7 Lévi-Strauss [1962].
8 Bateson [1979].
9 Deleuze – Guattari [1980].
quando progettiamo un microchip di nuova generazione stiamo usando strumenti
cognitivi destinati a risolvere problemi originariamente diversi, come distinguere
un predatore nelle ombre notturne (percezione-rappresentazione), seguire
le tracce di un animale (induzione-astrazione), organizzare una caccia di
gruppo (previsione-deduzione). Shepard sosteneva in particolare che il nesso tra
un uomo di 40.000 anni fa e l’uomo contemporaneo è la biologia che hanno in
comune, ma questa connessione biologica non è solo anatomica e fisiologica,
bensì neurofisiologica e comportamentale: le strutture mentali primarie sono le
stesse da 40.000 anni, e anche se qualche millennio di storia urbana ha portato
l’uomo a inventare innumerevoli modelli sociali, ideologici, cosmologici, il bisogno
di una struttura sociale basata su una ideologia e una cosmologia è l’eredità
di un patrimonio genetico modellatosi nel Pleistocene.
È infatti in quest’epoca che le principali caratteristiche fisiche umane (taglia,
anatomia, metabolismo, dimorfismo e comportamento sessuale, volume del cervello,
fetalizzazione esterna, ecc.) si sono sviluppate in connessione a fattori sociali,
ecologici e tecnologici: il nostro corpo e la nostra mente sono stati modellati
in un mondo di cacciatori-raccoglitori. Di fronte a poche decine di secoli di
storia ufficiale dobbiamo contrapporre due milioni di anni in cui Homo ha vissuto
cacciando e raccogliendo, due milioni di anni in cui il sistema ecologico ha
determinato a livello genetico la nostra struttura fisica e mentale e, attraverso
pressioni selettive, ha rafforzato e specializzato i nostri comportamenti innati.
Ma esiste anche una dimensione più arcaica che non va trascurata dal ricercatore,
e che continua ad accompagnare l’uomo nella vita di tutti i giorni. L’occhio,
ad esempio, che lo tiene in connessione privilegiata con l’ambiente (e che ha una
storia vecchia di 70 milioni di anni), si è formato in un contesto arboreo dove verticalità
dei tronchi e orizzontalità dei rami e del suolo erano le coordinate dominanti
di percezione e deambulazione delle Protoscimmie. Dice Shepard:
Forse il nostro senso estetico per la simmetria e l’equilibrio, la nostra tendenza a ricavare
per astrazione linee verticali e orizzontali e a seguirle con gli occhi, è da connettere all’abitudine
di seguire tronchi e rami, prima con il corpo, quindi stando seduti a guardare
[Shepard 2002: 5].
Secondo Steven Mithen10 Australopithecus (a partire da 4,5 milioni di anni fa),
Homo habilis (2 milioni di anni fa) e Homo erectus (1,8 milioni di anni fa) possedevano
già un’intelligenza sociale, cioè dei processi cognitivi specializzati nel comportamento
di gruppo, e potevano contare su moduli cognitivi finalizzati alla ricerca
complessa del cibo e alla memorizzazione della distribuzione spaziale delle risorse
alimentari (che Mithen chiama Natural History Intelligence e che io vorrei chiamare
qui, per ragioni che appariranno chiare nel corso del saggio, intelligenza ecologica).
Tali moduli erano forse in connessione con l’intelligenza sociale, per elaborare
strategie di gruppo finalizzate al sostentamento. Nel caso di Homo poi, attraverso
le prime evidenze di manufatti litici, si può parlare a pieno titolo di intelligenza tecnica,
perché era in grado di riconoscere selettivamente gli angoli acuti nel nodulo
TERRA SAPIENS 151
10 Cfr. Mithen [1996].
di selce da scheggiare, perché aveva una perfetta coordinazione occhio-mano, e perché
sapeva calibrare esattamente la forza e la direzione nel colpire. Dice Mithen:
La produzione di attrezzi litici e lo sfruttamento sistematico di carcasse di animali dovevano
richiedere molto probabilmente dei processi cognitivi specializzati di tipo sconosciuto
alla mente di uno scimpanzè. Homo habilis sembra essere stato in grado di capire
le dinamiche di frattura della pietra e di formulare ipotesi sulla distribuzione delle
risorse alimentari [Mithen 1996: 112].
Passando all’intelligenza di Homo sapiens, Mithen osserva che il salto, ancor prima
che all’avvento del linguaggio, è da imputare alla fluidità cognitiva tra moduli
sociali, tecnici ed ecologici, per elaborare sistemi complessi. In contrapposizione a
questo modello, detto ‘a cattedrale’, vorrei proporre un modello ‘paesaggistico’.
3. Folkecology e mente paesaggistica
Il termine Folkecology, usato in modo restrittivo per definire «la maniera in cui
un popolo comprende e utilizza le interazioni tra piante, animali e umani»11, può
essere utilizzato in senso totale per definire quella che ho chiamato intelligenza
ecologica, cioè un intreccio dinamico tra svariate competenze naturalistiche. In
tempi non lontani (e ancora oggi in certe culture) saper leggere il paesaggio faceva
la differenza tra la vita e la morte: la conoscenza del territorio, delle specie commestibili,
del comportamento della selvaggina, dei mutamenti stagionali, delle migliaia
di segnali ecologici che saturano l’ambiente, erano informazioni vitali per
l’uomo che, per sopravvivere, dipendeva unicamente dalle proprie abilità. L’etnobiologia
e la Folkbiology studiano i modi di concettulizzare, classificare e organizzare
le conoscenze zoologiche e botaniche in una cultura data. Tuttavia, oltre alle
competenze su animali e piante, dobbiamo poter contemplare le competenze non
meno vitali che un gruppo umano può aver sviluppato sulle parti inanimate del
territorio12, come le forme, le dinamiche e le componenti fisiche (idriche, minerali,
dei suoli) del paesaggio, e che qui potremmo denominare complessivamente Folkgeology.
Ogni popolo ha dunque sviluppato una lettura peculiare del proprio sistema
ecologico e, nonostante la diversità culturale, è possibile ipotizzare una radice
biologica comune: siamo forse in presenza di moduli concettuali innati, frutto
di una selezione ambientale che si esprime con varianti culturali all’interno di
ogni società, e che funziona come una potente griglia induttiva per interpretare la
realtà naturale13. Lo studio dell’infanzia e dell’adolescenza dei popoli cacciatori-raccoglitori
ha inoltre mostrato che il lungo apprendistato ecologico dell’individuo,
oltre a includere liste di nomi e di cose, si svolge sempre in uno spazio concreto:
il paesaggio nel suo insieme è un terreno di gioco totale che serve da modello schematico
all’intelligenza tecnica, linguistica e sociale14.
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11 Cit. da Atran at al. [1999: 7598]. Si veda anche Atran – Medin [2008].
12 Vd. Sillitoe [1996].
13 Cfr. Atran [1990].
14 Cfr. Hewlett – Lamb [2005].
È possibile allora ipotizzare un paesaggio cognitivo, cioè una struttura neurofisiologica
modellata sull’ecosistema e sulle sue qualità spaziali e dinamiche? Se
nella società occidentale il modello della mente sembra ricalcare la struttura urbana
(e non a caso Mithen usa la metafora della cattedrale), nelle società di cacciatori-
raccoglitori il modello paesaggistico è evidente. Si pensi alla Sacred Ecology,
cioè l’elaborazione di strutture rituali e mitiche volte a garantire e perpetuare
comportamenti mirati a un uso sostenibile delle risorse ambientali15. O si
pensi a elaborati sistemi eco-ideologici come quello dei Koyukon dell’Alaska:
Il comportamento dell’uomo nei confronti delle entità naturali è governato da regole a base
spirituale. Centinaia di queste regole sono state trasmesse in seno alla tradizione Koyukon,
influenzando l’intero spettro delle interazioni tra l’uomo e la natura. Il loro intento
ultimo è quello di mostrare rispetto, o di evitare una mancanza di rispetto, verso ogni entità
naturale, in accordo con un codice morale e di comportamento [Nelson 1983: 229].
E osservava Shepard:
Per i popoli cacciatori-raccoglitori l’ambiente naturale è solido. La struttura di parentela è
stabile perché l’individuo è nato o viene iniziato all’interno di un gruppo durevole come
la specie della pianta o dell’animale che ha assunto a emblema totemico [1998: 132].
Anche la società, dunque, può organizzarsi e pensarsi attraverso il sistema
ecologico, mentre la stessa costruzione del sacro è stata predeterminata da sistemi
innati di conoscenza e mappatura dell’ambiente: «La religione naturale – vale
a dire i modi basilari e comuni di rivolgersi al soprannaturale – non si sviluppò
nel vuoto ma mediante l’adattamento a uno specifico “paesaggio”» [Burkert
1996: 40].
Ma si pensi anche al fenomeno eloquente in cui lo spazio, il territorio, il paesaggio
è stato incorporato nelle strutture linguistiche:
Lo spazio [...] dovette essere un tema di capitale importanza nelle antiche culture paleolitiche
di caccia e raccolta, come almeno verrebbe suggerito dall’analogia con le culture
storicamente conosciute di cacciatori-raccoglitori [Ballester 2006, a: 23].
È il caso ad esempio della lingua apache, in cui i nomi di luogo non solo
procurano una ipostasi descrittiva del sito ma
implicitamente identificano la posizione per vedere il luogo: punti di vista ottimali, per
così dire, dai quali i siti possono essere osservati in modo chiaro e corretto proprio come
i loro nomi li descrivono [Basso 1996: 89].
O il caso della lingua inuit:
La dinamica delle relazioni spazio-temporali è il fondamento stesso della strutturazione
elementare e concettuale della lingua inuit della Groenlandia orientale. In altre parole,
l’impronta spaziale e temporale non si limita al dominio dei deittici o a quello dei morfemi
d’aspetto legati allo svolgersi dell’azione, si estende invece attraverso tutta la lingua.
È dunque la percezione spazio-temporale della realtà che struttura le conoscenze
[Tersis 1996: 75, corsivo nel testo].
TERRA SAPIENS 153
15 Vd. Berkes [1999], Menzies [2006], Harkin – Rich Lewis [2007].
In questo senso l’etnolinguistica è uno strumento indispensabile per cogliere
tratti universali e peculiari dei processi cognitivi dei vari gruppi umani, o per
ricostruire quelli di popoli il cui contesto etnologico è andato perduto. Un esempio
tra i più rilevanti è dato dalla Paleolithic Continuity Theory16 le cui applicazioni
sistematiche nel campo dell’antropologia linguistica17 hanno permesso di
ricostruire alcuni processi cognitivi locali altrimenti inattingibili, come ad esempio
il sistema di classificazione tassonomica e ideologica degli animali e delle
piante nell’Europa preistorica18 o l’individuazione di modelli percettivi di matrice
sciamanica nelle letterature dell’Europa antica e medievale19.
L’articolo completo è disponibile a questo link:
http://www.continuitas.org/textsauthor.html#meschiari